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La presidenza di Franklin Roosevelt, tra depressione, new deal e Keynes

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Le elezioni presidenziali americane del ’32 ebbero luogo in un clima di tensione e di incertezza. I due massimi partiti in lizza, il repubblicano e il democratica, non si erano mai trovati, dai tempi della guerra civile, di frotne a provlemi così compless. La popolarità di Hoover era ormai ai minimi storici data la sua incapacità di far fronte alla dilagante miseria. Secondo alcuni storici Hoover, recatosi a Detroit, il maggior centro della produzione automobilistica americana, per un comizio, alla fine della campagna elettorale, ebbe in quell’occasione il senso dell’inevitabile sconfitta: «Nella città dell’automobile per chilometri la macchina presidenziale sfilò tra due ali di gente cupa e silenziosa; quando Hoover si alzò a parlare, la sua faccia era terrea, le mani gli tremavano. Verso la fine della campagna era ormai una figura patetica, un uomo stanco, avvilito, fischiato dalla folla come nessun presidente era mai stato ».

L’antagonista democratico di Hoover era il governatore di New York, Franklin Delano Roosevelt (1882-1945). Appartenente alla famiglia di un altro presidente degli Stati Uniti, Theodore Roosevelt, dotato di grande fascino personale, conosciuto come un uomo sensibile ai bisogni delle masse popolari, Roosevelt si presentava all’elettorato con un programma limitato ma con la convinzione e la volontà di applicarlo. Tale volontà egli l’aveva d’altronde dimostrata nell’espletamento delle funzioni di governatore, funzioni che egli svolgeva in pieno nonostante la grave infermità da cui era afflitto (la poliomielite lo aveva colpito negli anni della maturità, ma non aveva affatto diminuito il suo impegno politico e la sua capacità di lavoro).

La sua vittoria non fu perciò difficle ed egli superò il rivale di oltre 7 milioni di voti.

I mesi intercorsi tra le elezioni (novembre 1932) e l’insediamento del neo-eletto (marzo 1933) furono durissimi per il popolo americano: quindici milioni di lavoratori erano disoccupati, sei milioni di agricoltori erano schiacciati da 10 miliardi di debiti ipotecari, cinquemila banche erano chiuse, gli investimenti industriali erano crollati a 74 milioni di dollari dal miliardo del 1929.

Non era più il tempo dell’ottimismo e Roosevelt nel discorso di insediamento disse al popolo americano e al mondo la verità; «Ivalori si sono contratti in modo fantastico; i mezzi di pagamento,
congelati, bloccano gli scambi commerciali; le foglie morte delle nostre imprese ingombrano il terreno; i nostri agricoltori non trovano più il mercato per i loro prodotti; le economie di milioni
di famiglie sono scomparse; un esercito di cittadini senza lavoro si trova di fronte al duro problema di vivere. Bisogna essere degli ottimisti molto sciocchi per negare le tragiche realtà del momento… I cambiamonete sono fuggiti; hanno abbandonato i loro seggi elevati nel tempio della nostra civiltà… La Nazione esige azioni e azioni immediate. Nostro primo compito sarà di rimettere questo popolo al lavoro ».

La strada imboccata da Roosevelt con l’aiuto di collaboratori scelti tra i più preparati e aperti studiosi e politici di fede democratica (il famoso brain trust, l’unico trust accettabile, disse scherzosamente Roosevelt), doveva giungere a due mete: il superamento degli aspetti sociali più vistosi della crisi – la miseria e la disoccupazione – e l’energico intervento dello Stato nell’economia, ñno allora lasciata all’iniziativa privata. Questa strada segnava la fine del liberalismo puro, del feticcio del laissez faire.

Nasceva così il New Deal. I provvedimenti più significativi del primo periodo della presidenza Roosevelt furono i seguenti: svalutazione del dollaro del 40% per rialzare il livello dei prezzi; riassorbimento della disoccupazione mediante un ampio piano di lavori pubblici, finanziati
dallo Stato, che andava dalla costruzione di dighe gigantesche fino alla decorazione dei monumenti; aumento dei salari e riduzione dell’orario di lavoro nelle fabbriche, fissazione dei prezzi minimi
dei prodotti e blocco della concorrenza sleale in campo commerciale (a ciò provvide il National Recovery Act); riconoscimento dei sindacati nelle aziende e obbligo per gli imprenditori di trattare con essi; controllo e riorganizzazione, da parte dello Stato, del sistema bancario, sorveglianza sulle borse e sul mercato azionario (a tale scopo fu istituita la Securities Exchange Commission);
incoraggiamento alla riduzione della coltura di certi prodotti agricoli (cotone e grano) di cui esistevano scorte non facilmente smerciabili (a ciò provvide l’Agricultural Adiustement administration) e assunzione a carico dello Stato di parte delle ipoteche gravanti sugli agricoltori. Infine per dimostrare che lo Stato era capace di sfruttare e gestire in proprio anche le fonti di energia, Roosevelt creò la Tennessee Valley Authority; essa doveva servire a sfruttare le forze idroelettriche a tutto vantaggio dei consumatori che venivano così a pagare l’elettricità a prezzi molto inferiori a quelli praticati dalle compagnie private.

L’applicazione di questo piano (che presupponeva, come è facile comprendere, una vasta azione di democratizzazione politica della nazione americana) suscitò l’opposizione delle classi privilegiate, i cui interessi economici,. anche se mutilati dalla crisi, non erano talmente sconvolti da far loro accettare o giustificare un così « violento » intervento del potere pubblico negli affari privati. Molti però compresero che proprio la politica di Roosevelt avrebbe potuto salvare gli Stati Uniti da una catastrofe irrimediabile.

L’odio dei privilegiati e degli speculatori non scalfì la popolarità che Roosevelt e il New Deal si conquistarono rapidamente tra le masse popolari, tra i diseredati, tra le vittime, insomma, della crisi del capitalismo americano. Le grandi organizzazioni sindacali (American Federation of Labor e Congress of Industrial Organizations) appoggiarono infatti incondizionatamente l’opera del presidente. Ciò permise a Roosevelt di tornare alla Casa Bianca dopo le elezioni presidenziali del 1936 e di rafforzare politicamente, economicamente e sul piano costituzionale (molti dei provvedimenti sopra citati erano stati infatti giudicati incostituzionali dalla Corte Suprema) la sua azione di governo.

Si è accennato al disorientamento degli economisti dinanzi alla crisi scoppiata nel 1929, la cui rapida estensione assumeva caratteristiche inedite rispetto ad altre precedenti recessioni economiche. Da qui l’incapacità degli economisti di ispirazione liberale di comprendere la drammaticità della situazione e, soprattutto, di suggerire adeguati rimedi. D’altronde qualunque programma di riforme economiche doveva, allo stato dei fatti, muovere dalla persuasione che il laissez faire nella sua forma classica era in agonia. E perché tale persuasione si tramutasse in azione era necessario un coraggio intellettuale, oltre che politico, che solo pochi tra quegli studiosi di economia possedevano.

A questa sparuta minoranza appartenne ]ohn M. Keynes (1883- 1946), al quale spetta il merito di avere identificato i caratteri della crisi nel momento del suo manifestarsi; di avere negli anni precedenti il 1929 elaborato una linea di politica economica la cui applicazione avrebbe certamente, se non evitato, ridotto gli effetti della crisi almeno in Europa; di avere infine contribuito sul piano
teorico (con la pubblicazione dell’opera Teoria dell’occupazione, interesse e moneta, 1936) alla elaborazione di un sistema di interventi a livello politico ed economico ed al riconoscimento della
necessità di un controllo della « mano pubblica », dello Stato, sull’attività produttiva.

Per comprendere anzitutto quale fosse l’atteggiamento di Keynes nei confronti dell’esperimento rooseveltiano, basta riportare le parole con cui egli si rivolse, in una lettera aperta del luglio 1933, al presidente americano: « Lei si è eretto a fiduciario di coloro che, in ogni paese, cercano di guarire i mali della nostra situazione mediante un esperimento ragionato nel quadro del sistema sociale esistente. Se lei non riesce, il progresso razionale risulterà gravemente pregiudicato in tutto il mondo, lasciando ortodossia e rivoluzione a combatterlo. Ma se riesce, metodi nuovi e più arditi saranno sperimentati dovunque, e noi potremo datare il primo capitolo di una nuova èra economica dal suo avvento al potere ».
Keynes, che era stato negli Stati Uniti nel 1931, aveva visto con i suoi occhi la spaventosa distruzione di ricchezza che la crisi stava provocando. E si trattava di ricchezza non solo materiale ma anche umana. Per questo, egli riteneva urgente non solo la « ripresa » ma anche la riforma dell’economia: e ripresa voleva dire aumento dell’occupazione e quindi « aumento del potere
d’acquisto nazionale », possibilità per le banche di dare denaro in prestito a basso tasso di interesse (cio che avrebbe contribuito al rilancio dell’attività produttiva), aumento della fiducia dei cittadini nelle obbligazioni e nelle azioni pubbliche (dello Stato); politica di grandi lavori pubblici e di alti salari.

Queste idee, che furono poi inserite nel più complesso quadro della Teoria generale del 1936, già nel 1933 erano ampiamente diffuse attraverso alcuni fondamentali articoli pubblicati sul « Times » e poi raccolti nel volumetto The Means to Prosperity.

L’età della libera iniziativa economica, intesa} almeno nel senso ottocentesco, le della fiducia nei meccanismi spontanei del mercato poteva allora dirsi definitivamente conclusa anche sul piano
teorico.


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